entriamo in teatro...
Oggi conosciamo, infine, il protagonista ovvero Giobbe:
Un reietto, un albero folgorato che non promette altro che frutti di cenere, un uomo sul parapetto che non si solleva che per il grande salto. Così troviamo Giobbe all’inizio del dramma. O meglio, così troviamo Giobbe nel pieno del dramma.
Un uomo spogliato di tutto, relegato in solitudine su un letto di ospedale, apparentemente abbandonato anche da quel Dio che tutto gli aveva donato e che mai lui aveva smesso di ringraziare. Un uomo a cui niente viene risparmiato ma proprio affinché, alla fine di tutto, possa arrivare a dire di non aver perduto niente.
Dirà infine a Satana: "Contre tes plaisirs mesquins, je m'appelle à la Joie"
Uno dopo l’altro, pezzi del suo passato tornano a riproporsi agli occhi di Giobbe: gli amici, Elifaz e Zophar, il padre confessore Elihu, il fratello Bildad, la moglie, e persino una giovane incrociata per caso in metropolitana.
Sei personaggi in cerca di una soluzione a un dolore incomprensibile, quello di Giobbe, che inevitabilmente finisce per diventare anche il loro dolore. Ciascuno di loro propone la sua soluzione, qualcosa che addolcisca la pillola, vie facili da intraprendere ma che Giobbe intuisce sarebbero solo risposte parziali alla sua ferita.
La vera “tortura degli amici”, insomma, sarebbe la tentazione che, anche in modo innocente, essi propongono come antidoto al dolore di Giobbe.
Ma forse può bastare all'uomo una pomata per curare una ferita grave, oppure il pensare di potersi distaccare con la mente dal male affinché esso scompaia?
Può essere di conforto il rifugiarsi nel pensiero che tutto è niente come antidoto alla ricerca del significato di ciò che accade?
“Il mio cuore è vivo: lo sento per il male che mi fa”, dice Giobbe ad Elihu, e ancora a Bildad “Come potrebbe il male farci tanto male se non avessimo prima udito la promessa del bene?”.
Il Bene sperimentato è stato fino a quel momento tanto grande che anche ora Giobbe non può smettere di domandarlo. Di fronte alla tentazione di un bene ridotto, un cuore provato e ferito come quello di Giobbe non può accontentarsi: egli intuisce, anzi, che c’è bisogno che la frattura si allarghi ancora perché possa contenere tutto, anche il male.
E così, se è necessario che Dio taccia, che rimanga come nascosto, perché l’uomo possa scoprirsi di nuovo Sua creatura, allora anche il dolore è salvato, e nulla è perduto.
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